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7 maggio 2015

A SCUOLA DI ROCK 22 - GEORGE HARRISON

di Dario Cordovana



George ci ha messo un po’ prima di fare da solo. Era il più giovane dei Beatles, un’ottima chitarra solista, ma ha dovuto imparare a poco a poco a scrivere canzoni. Non che le varie “Don’t Bother Me”, “I Need You” o “You Like Me Too Much” fossero male, anzi. Però c’era sempre una ditta concorrente fortissima da superare o uguagliare, la Lennon-McCartney Corporation, per cui le composizioni di George faticavano un po’ a farsi largo nel repertorio dei Beatles.
E però George aveva una scrittura particolare. Tanto per cominciare era lui che sviluppò un concreto interesse per la musica indiana. Almeno tre brani scritti mentre era nel gruppo sono fortemente pregni di quelle influenze. E ancora nel 1968 il suo primo album solo, è la colonna sonora del film “Wonderwall”. Un lavoro spesso strumentale, nel quale l’India era ancora al centro dei suoi pensieri. E del resto era quello l’anno in cui i Fab Four si spostarono sulle rive del Gange per meditare in compagnia del santone Maharishi Mahesh Yogi.
Ancora ai tempi del gruppo, mentre in “Abbey Road” George raggiunge l’immortalità con la doppietta “Something” e “Here Comes The Sun”, nello stesso anno, il 1969, viene pubblicato il suo secondo lavoro, lo sperimentale “Electronic Sound”, rapidamente dimenticato.
L’anno successivo i Beatles sono già storia e George può finalmente dedicarsi a quei pezzi che con il gruppo non aveva potuto sviluppare. E’ un tripudio di creatività che viene tradotta in musica grazie alla collaborazione di un gruppo di amici notevole (Eric Clapton, Billy Preston, i Badfinger…). Il risultato è il mastodontico “All Things Must Pass”, che, trainato dal singolo “My Sweet Lord”, dà una chiara dimostrazione della maturazione del nostro.
Nel 1971 George Harrison fa parlare di sé per l’organizzazione di un megaconcerto a favore della popolazione del Bangla Desh, a cui partecipano numerosi ospiti, primo tra tutti Bob Dylan. Oggi sembra quasi normale, ma allora organizzare un evento di quel genere non era affatto semplice. Per ritrovare il nostro in piena attività bisognerà però attendere il 1973. Da un lato dà una mano al vecchio compagno Ringo Starr nella preparazione del suo fortunato “Ringo”, dall’altra pubblica “Living In The Material World”, album che soffre decisamente il confronto con il suo predecessore, malgrado il successo di “Give Me Love (Give Me Peace On Earth)”.
Nel 1974 è il turno di “Dark Horse”, per promuovere il quale George va in tour senza alcun allenamento. La voce è così rauca da far ribattezzare il tour “Dark Hoarse” (rauco oscuro). Neanche “Extra Texture” risolleva le sue quotazioni e come se non bastasse, Harrison viene citato per plagio dato che “My Sweet Lord” è evidentemente troppo simile a un vecchio successo delle Chiffons , ”He’s So Fine”.
Dopo la battuta d’arresto George ci scherza sopra, pubblicando “This Song”, una canzone il cui testo assicura non essere stata copiata da nessuno. L’album successivo, l’omonimo “George Harrison”, poi, si segnala per un brano, “Faster”, dedicato ad una passione di George, la Formula 1. Ma oltre allo sport è anche il cinema che attira il nostro musicista. Non tanto come attore o compositore di colonne sonore, quanto come produttore. Tutto parte da una passione nei confronti dei Monty Python, gruppo di comici inglesi, che faticano però a trovare chi è disposto a finanziare le loro idee. Ci pensa George a produrre “The Life Of Brian”. Tutto per il gusto di potersi godere un altro film dei Monty Python, che opportunamente e spiritosamente, descriveranno quest’azione il più costoso biglietto della storia del cinema.
Nel tardo 1980, mentre George sta lavorando al nuovo album “Somewhere in England”, un pazzo a New York uccide il suo vecchio amico e compagno John Lennon. “All Those Years Ago” viene scritta come tributo al grande musicista scomparso, e riporta George al successo. Purtroppo il passo successivo è lo scialbo album “Gone Troppo”, il cui insuccesso spinge Harrison a una lunga pausa.
Ritornerà nel 1987 con il buon “Cloud Nine”, rinvigorito dalla produzione di Jeff Lynne. Con l’ex-leader dell’Electric Light Orchestra fonderà poi i Travelin’ Wilburys, supergruppo completato da Roy Orbison, Bob Dylan e Tom Petty. Malgrado la scomparsa improvvisa di Orbison sia un brutto colpo da assorbire, il divertimento per queste superstar del rock è stato tale, da offrire una replica, curiosamente intitolata “Vol.3”.
Siamo all’inizio degli anni novanta, George va in tour in Giappone e fa dimenticare i brutti concerti del 1974. Clapton (che pur rimanendo suo amico gli ha soffiato la sposa Pattie Boyd) è con lui e si sente. Per il resto del decennio i fans aspettano un nuovo album che tarda ad arrivare, anzi più preoccupanti sono le voci che vogliono George Harrison ammalato di tumore. In questa già difficile situazione, l’artista viene assalito da un pazzo (un altro!) che lo pugnala nella sua abitazione di Friar Park. Harrison si salva ma, nel novembre del 2001, alla fine perde la sua lotta contro la malattia. Solo allora finalmente viene pubblicato l’atteso album “Brainwashed”, un album di buon livello, che però nulla aggiunge all’arte di un musicista per il quale la musica era diventata solo una delle sue mille passioni. Personalità affascinante, davvero …

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