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17 settembre 2013

Papa Francesco: “In Siria si rischia la guerra mondiale”

di Fra' Domenico Spatola



La Siria non è la stessa di quella che visitai qualche anno addietro. Mi incantarono da subito i monumenti millenari ed espressioni delle diverse culture che nei secoli l’hanno reso grande.
Mi piacquero il clima, l’orografia, le città e i piccoli villaggi a misura d’uomo.
La gente era disciplinata e silenziosa all’aeroporto di Damasco, che potei raggiungere solo alle tre di notte, per spiacevoli peripezie a Fiumicino.
Grande e vivace fu per me la capitale, oggi oggetto di preoccupazioni e attenzioni mondiali, nel vociare indistinto di un sottofondo che accompagnò la visita ai Suck, mercati orientali provvisti di tutto, e alle stesse moschee, cuore pulsante della religione islamica, che pure anch’essa vive, e non da ora, tensioni trale diverse correnti religiose “sunnite” e “sciite”, responsabili all’origine della guerra odierna.
Aleppo faceva da pendant con Damasco, e con qualche superiorità in fatto multietnico di culture e tradizioni diverse.
Apprezzai lo stile crociato, ancora invitto e non rinnegato nei numerosi manieri e castelli, dove vivo è il ricordo di un passato epicizzato dal medioevo cristiano per la conquista emblematica della Siria “porta dell’Oriente”.
Palmira e Apamea mi ritornano incantevoli per lo stile inconfondibilmente agile delle colonne svettanti a vittoria e contro il tempo tiranno, anch’esso stregato da bellezza immortale.
Ripenso ai monasteri ortodossi, arroccati come nidi sulle rocce a testimonianza di un passato cristiano vivo e difeso a sangue contro culture avverse, passate e attuali.
Lì trovò culla il primo monachesimo cristiano, attecchito - immagino - naturalmente in questa terra, paradossale di bellezze e contraddizioni, segnata da deserti, ospitali e addolciti a smeraldo, dalla vegetazione mediterranea a macchia di leopardo.
E’ il mio ricordo, custodito e riesumato dolorosamente per le scene infauste di questi ultimi giorni con un regime accusato di avere, usando armi chimiche, in una sola notte ucciso oltre millequattrocento civili, tra cui molti bambini.
Dinanzi a sì efferato crimine, evocante scene disumane di non lontane dittature, l’opinione pubblica, divisa sulla colpevolezza, è tuttavia preoccupata per la escalation di terrore che sta coinvolgendo l’intera area e il pianeta.
La Siria è infatti un tassello del mosaico di etnie e di fedi diverse e contrastanti, nello scacchiere mediorientale di Stati in continua fibrillazione e perenne assetto di belligeranza.
La regione è temuta come “polveriera che potrebbe deflagrare – come afferma papa Francesco – in guerra mondiale”. Perciò più che altrove, qui la pace, o quanto meno la tregua, è doverosa per la sopravvivenza dell’intera Umanità. Va da sé l’impegno comune a coltivarla e custodirla.
Obama e la Francia di Holland vorrebbero esemplarmente castigare Damasco perché non reiteri il progetto criminoso. L’Iran ne approfitta per dare fiato alle sue trombe di guerra in versione antisraeliana, con minacce esplicite di interventi contro lo Stato ebraico.
E’ legittimo immaginare che quest’ultimo, detentore anche dell’arma atomica, non sia disposto a porgere l’altra guancia.
La Russia e la Cina, dal canto loro, non convengono per un intervento militare e intimano l’America dal non farlo.
La stessa Inghilterra, per la prima volta, ha rinunciato a schierarsi a fianco degli Stati Uniti, e l’Italia invoca più diplomazia, mentre la Turchia non risparmia accuse di latitanza all’ONU, che nell’immaginario comune dovrebbe dirimere le questioni internazionali, e soprattutto quelle relative alla pace mondiale.
Nel frattempo, per mettere al riparo i propri interessi economici, le Compagnie petrolifere hanno già preventivamente alzato il prezzo del greggio, innescando la speculazione responsabile di accrescere i debiti delle Nazioni dipendenti dal petrolio.
Il Mondo sta a sperare, aspettando che dal G20, a Pietroburgo, i potenti della terra mandino segnali di distensione, consapevoli che dalla guerra nessuno potrà mai dirsi vincitore.


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