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20 aprile 2009

IL GENERALE

di Andrea Basso Sr.



Quando ti veniva la febbre, per prima cosa, dovevi avere un po’ di pazienza: startene a letto bell’accupunatu ed aspettare. Tanto il medico, prima di tre giorni, non te lo chiamavano.  Perché prima, dicevano, era tempo perso e  non ci avrebbe capito un bel niente. Ti portavano qualche pastina in brodo e un poco di frutta, che dovevi tenerti leggero, e tutt’al più, se la febbre era troppo alta, mamma andava dalla farmacista che sapeva tutto.
Che poi la farmacista non era farmacista, ma semplicemente la moglie del farmacista che, poiché si stava allevando il suo pupo che, guarda caso, era coetaneo di tutti i pupi del rione, nati nello stesso suo anno e dintorni, ne sapeva più  di suo marito e del pediatra.
“Abbonè ca c’è a signura”, e le mamme del rione, in prima battuta, correvano dalla farmacista che conosceva tutti i rimedi del caso.
Croste di latte, diarrea, tosse, mal di gola? Lei ti preparava una mistura, o qualcos’altro,  che certamente non poteva che farti bene. E, per la febbre alta, mamma si ritirava con qualche bustina di salicilato, che era il corrispondente dell’attuale tachipirina.
Dopo il terzo giorno, però, se la febbre continuava, era tempo che intervenisse il Generale.
Il Generale era un generale medico che comandava gli ospedali militari di mezza Sicilia. Puoi dirmi tu: “Ma non sarebbe stato meglio chiamare il pediatra?” In teoria si, ma in pratica no. Perché il pediatra dovevi pagarlo, mentre il Generale, essendo compare di mio zio, no. Che allora il comparato si rispettava.
Il Generale si presentava velocemente a casa nostra con la sua macchina, con autista incorporato. Con la sua macchina, badate bene, e non con quella dell’ospedale militare, come facilmente si sarebbe indotti a fare oggi. E non perché il Duce, venendolo a sapere, ci sarebbe rimasto male, ma perché la cosa non rientrava nella sua mentalità.
Baciava tutti, ammalati e sani, nichi e grandi, compresa Fina, la santa donna morrealese che con noi conviveva, ufficialmente per aiutare mia madre nelle faccende domestiche, ma, di fatto, arrogandosi il compito di ferrea educatrice. E che con questi compiti, taciti o espressi che fossero, imperversava a casa nostra già da molti anni, e per molti anni ancora amorevolmente tiranneggiò.
Dopo questi preamboli, il Generale passava quindi alla visita vera e propria.
“Isa ccà.” diceva strettamente in lingua madre, per essere ben capito, dato che allora la lingua straniera si imparava solo dopo, a scuola. E ci alzavamo la maglietta. Ci batteva ripetutamente sulle spalle, con due dita sotto e due sopra, con le sue dita che sembravano mazzuole, dicendoci: “Ciata”. Noi facevamo alcuni profondi respiri, e lui, dopo avere attentamente attintatu,  sentenziava: “A cascia è buona.” E se lo diceva lui, tisiologo molto stimato ed apprezzato, c’era da crederci. “Uora viriemu u cientupieddi”.E qui ti visitava il pancino. “Uora rapi a vucca” e ti infilava in bocca un manico di cucchiaio, per farti abbassare la lingua, che ti veniva di rimettere pure quello che per tre giorni non avevi mangiato, dato che dovevi tenerti leggero.“Nienti, u picciriddu ‘unn’avi nienti; è un pocu ri nfruienza. Ci vuoli sciruoppu ri liettu.” Oppure:”Nienti, avi i cannaruozza russi: facitici fari gargarismi con acqua e limone.” Insomma, era sempre niente. E si tranquillizzavano tutti.
Poi, preso il suo ricettario, buttava giù una sfilza di tanti milligrammi di questo e tanti di quello che, tradotti dalla farmacista di cui sopra, si trasformavano in bustine contenenti polverine accuratamente prelevate dalle varie burnie, dosate con la bilancina di precisione e con l’ausilio di microscopici pesi, da prendere sciolte in acqua. Nel caso in cui, poi, servisse uno sciroppo per la tosse, si faceva rapidamente in casa , con miele di carrube, che aveva il pregio di essere molto economico e, nello stesso tempo, efficace come quello fatto in farmacia. Tranne che non bisognasse aggiungervi ingredienti particolari.
Il Generale passava quindi ai distinti saluti con relativi ribaci di commiato. Non senza, però, essersi assuppatu i racconti di tutti i malanni, veri o presunti tali, degli astanti, che, avendo saputo per tempo della sua venuta, si erano sentiti in dovere di venirlo affettuosamente a salutare.
“Generali, ma a mia mi viene prurito n’te chianti ri manu.” Diagnosi subito fatta: “O picciuli o lignati. Può essiri ca ti niesci un ternu.“
“Generali, a nuotti mi friscanu le orecchie: ’un faciemu ca è la pressione?” “Ma quali prissiuoni! Avi a essiri quarcuna ca ti sparra. Tu, però, pi si e pi no, la sera prenditeli tre spicchi di agghia crudi. To maritu? Vuol dire che, quando ti corichi, ti volti dall’altra parte.”
Quindi, dopo aver tranquillizzato tutti, saliva sulla sua 501 e se ne andava.
“Caccia, Giuvanni”, diceva all‘autista, come se parlasse ancora al vecchio ‘gnuri. E se ne partivano, con grande rammarico del piccolo ammalato di turno, a cui ,malgrado le pressanti richieste, non  era stato consentito affacciarsi alla finestra per assistere alla scena.
Il Generale, poi, oltre ad essere un bravo tisiologo, aveva un gran cuore.
Riceveva i suoi clienti nel gabinetto medico che aveva in via Cavour, dove ci aveva uno strano apparecchio, che gli consentiva, diceva lui, di guardare dentro i polmoni della gente. E per questo lo pagavano lautamente.
E la domenica, che era del Signore, lavorava pure. Ma si faceva le visite della Marunnuzza, a cui evidentemente era molto devoto. Si girava i quartieri più poveri della città, assistendo la gente che non si poteva permettere il lusso di pagarsi un medico: specie se si trattava di un medico importante, come lo era lui. E dato che la mutua non l’avevano ancora inventata.
A ben pensarci, doveva essere molto bravo e dotato di tanta esperienza ed intuito, per curare la gente con i mezzi diagnostici e le medicine di allora.
Oggi, invece, viene il medico, anche prima dei tre giorni, magari non ci capisce un bel nulla lo stesso, e ci può avere anche i suoi giusti motivi. Però ti dice che è certamente colpa di un virus, non meglio identificato, che perora gira. Quindi ti prescrive un antibiotico a largo spettro, e in tre giorni ti passa tutto.’Nzocchegghè. E’ più facile, no?
I tempi del Generale, invece erano diversi. Ma qualcuno, oggi, non tenendo presente la diversità dei tempi, potrebbe dire. “Ma il Generale che razza di medico era?
Che razza di medico? Certo che le cose ci passavano. Non ci credete? No?
E allora com’è che io sono ancora qui? E ancora non ci ho nemmeno l’Alzaimer, tant’è vero che mi ricordo ancora bene queste cose?
Com’è?

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Commenti lasciati per:

IL GENERALE
 

 

Abbonè ca c'è cu ci pensa o' passato! Ciata, rapi a' vucca e poi scriva, caro Andrea Sr!
"Il cane che andava per mare" ... racconti del nostro passato siciliano che le piacerà. Su liggissi!

anna monterosso

21/04/2009 12:51:29


 
 

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