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6 agosto 2009

IL CIRCOLO CULTURALE

di Andrea Basso Sr.


    
      Verso sera, al calar del sole, una carrozza puntualmente si fermava davanti la farmacia del Professore, e da essa scendeva un distinto signore. U ‘gnuri, dopo essersi incassato il suo giusto nolo, rispettosamente salutava: ”Voss’abbenerica, cuonti” diceva, togliendosi  il cappello. Che allora il cappello, per i vetturini, era di rigore, ed ogni ‘gnuri era tenuto a portarlo, come pure la gabanella grigia. Anche perché, se avesse avuto la disavventura di incocciare per strada il Negus, puntunieri di razza, con la divisa in disordine  si sarebbe certamente beccata una multa.

    Il distinto signore, sceso dalla carrozza, era Don Ciccio il Conte. Il conte era di bell’aspetto, come esigeva il suo titolo: alto più del necessario, figura slanciata, capelli biondi ed occhi azzurri, sorriso smagliante, paglietta, cravatta a farfalla, panciotto con orologio a catena incorporato, ghette grigie e bastone. Chiaramente i suoi antenati dovevano provenire dal ceppo normanno piuttosto che da quello arabo.

    Che poi il Conte, malgrado il suo bell’aspetto, proprio conte di nascita non era, ma si portava appresso quella nobile ‘nciuria da quando,  nel ‘98 di due secoli fa, convolato a giuste nozze, aveva fissato la sua dimora in un bel caseggiato che un conte vero gli aveva concesso in locazione.

    Sceso dalla carrozza, il Conte si accomodava in una delle sedie che, a sera, il Professore faceva sempre sistemare sul marciapiedi antistante la farmacia,  per potere ricevere gli amici. “Salutamu, Don Ciccio, chi si rici?”, diceva il Professore, con la sua Serraglio sempre in bocca, che con  il mozzicone di una si accendeva l’altra, che così, diceva,  ci risparmiava i cerini. “Semu ccà”, rispondeva il Conte, accendendosi, di contro, il suo mezzo Toscano.

    Nel giro di pochi minuti, si arricampavano quindi un certo numero di signori, che rappresentavano la migliore crema del rione, ed il circolo culturale era così costituito. Ne facevano parte, di diritto, oltre al Farmacista ed al Conte, il medico, due magistrati allampanati, il direttore della Posta e due funzionari di banca, che venivano integrati occasionalmente da alcuni altri personaggi di spicco del rione.

    “Che novità ci sono, Cuonti?”, chiedeva il Professore. E lui, che saliva dalla zona del porto, dove svolgeva la sua attività di commercio degli agrumi, in maggior parte prodotti nei suoi vasti terreni, rispondeva: “Questa sera le bombe ‘nni fannu fietiri: c’è un porto pieno di navi.” Previsione che si verificava puntualmente, anche perché il nemico ne era stato messo già al corrente dalla spia che risiedeva a Monreale.

    Che a Monreale ci fosse la spia, lo sapevano i cani e i gatti, tranne coloro che avrebbero dovuto avere il compito di catturarla. E veniva anche il dubbio che invece lo sapessero pure, ma che dovevano fare  finta di non saperlo,  per motivi di equilibri diplomatici internazionali. Sta di fatto che, dopo l’entrata degli americani, un distinto signore, che come tale era conosciuto da tempo dai monrealesi, si presentò in piazza indossando la divisa di colonnello dell’esercito americano.

    Quindi, sotto voce, qualcuno degli astanti formulava la solita domanda di rito: “Professore, e lei che notizie ci porta?” Perché era a conoscenza di tutti, ma non si poteva dire, che il Professore qualche notizia riservata la portava sempre.

    Ogni sera, quando veniva ripristinata la fornitura di energia elettrica, che interrompevano  per un’ora per fare economia, succedevano due fatti consueti, uno di pubblico dominio e l’altro di natura riservata.

    Alcuni giovani, figli o nipoti dei componenti il circolo culturale, che malgrado i tristi tempi, gli  spirciava di fare scherzi, durante l’interruzione della luce,  si prendevano cura di infilare  pezzetti di stuzzicadenti  nei campanelli dei portoni di una via anticipatamente prescelta, che rimanevano così pressati, con il risultato che, una volta ripristinata l’energia elettrica, sembrava di essere nel  “Paese dei campanelli”.

    Il Professore, invece, aveva cose più serie a cui pensare. Accendeva la sua gloriosa Fonola ed incominciava a smanettare con la manopola della sintonia, fino a     quando, avvisato dai  quattro colpi di tamburo della  Quinta di Beethoven,  ascoltava l’agognato annunzio: “Qui Londra, vi parla Ruggiero Orlando”.

    E da questa radio apprendeva che, vero era che avevamo affondato una nave agli inglesi, abbattendogli anche un aereo, come comunicato dal nostro giornaliero bollettino di guerra, però questo  non aveva detto che  loro ne avevano affondato tre a noi, oltre  vari aerei. E queste notizie il Professore riferiva ai suoi amici, con tono di compiacimento disfattistico, che evidenziava chiaramente il suo pensiero nei riguardi del  regime. Si innescava quindi un’ampia discussione, in quanto non tutti la pensavano nella stessa maniera. Il tutto inframmezzato da bicchieri di acqua fresca e zammù, che Jachinu, il solerte garzone del chiosco, serviva su un ampio vassoio, per incarico e spese del Professore.

    Poi per un fatto naturale, avvicinandosi l’ora di cena, il Circolo Culturale si scioglieva alla chetichella, con la promessa tacita di ricostituirsi la prossima sera, per trattare i soliti argomenti all’ordine del giorno.

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