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27 giugno 2013

ANDIVINA A FORTUNA

di Andrea Basso Sr.


   
Succedeva che, qualche volta, non andavamo a scuola, o che qualche volta andavamo a scuola, adesso non ricordo bene. E quando non ci andavamo i motivi potevano essere diversi: talvolta il fatto era programmato fin dal giorno prima, perché i compiti erano troppi e difficoltosi, per cui era opportuno lasciare perdere ed andarsene a passiare.
    
    Ma la decisione poteva essere presa anche la mattina stessa, o per la bella giornata che ti faceva stringere il cuore al pensiero di andarti a chiudere in classe per cinque o sei ore, con qualche professore che atturrava in maniera indecente, o per unirti  a  qualche compagno, tanto per fargli compagnia.

    Ed ecco svelato anche  come io faccia a conoscere  tutti i vicoli del centro storico di questa nostra Felicissima Città, più o meno belli, più o meno malfamati, per cui era prudente non entrarci da solo.

    E, durante questi giri turistici, si incontravano i tipi più svariati.

    Nella piazzetta dietro il Cineteatro Finocchiaro, locale in cui ricordo di avere visto recitare Rosina Anselmi e Turi Pandolfini, che aveva rimpiazzato Angelo Musco, che non c’era più, in “L’aria del continente”, o a Piazza Venezia, dietro il Teatro Biondo, potevi goderti Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, di cui allora nessuno conosceva i nomi, che già si esibivano nelle loro esilaranti macchiette.

     Si preparavano il loro spazio, facendo un cerchio a terra, con un pezzo di gesso,  che delimitava il loro palcoscenico dalla parte riservata al pubblico. E alcune di queste macchiette poi divennero famose quando li rifecero in televisione. Tipo quella in cui Franco, seduto per terra,  con il corpo piegato ad angolo retto e irrigidito, come solo lui sapeva fare, si spostava a bilanciere, a secondo se Ciccio gli poneva il cappello sulle testa o sui piedi. O quando si esibivano in un ballo frenetico, accompagnati da una simpatica orchestrina, formata da tromba,  chitarra e batteria.

     E, alla fine, giravano con il cappello in mano, raccogliendo qualche moneta.

    Di queste minicompagnie di artisti di strada ne esistevano diverse, per cui c’era l’imbarazzo della scelta.

    A Piazza Borsa, incontravi certamente i cambiavalute, che con la loro voce rauca caratteristica, svolgevano, un po’ sottovoce,  la loro illecita attività : “ Dollari, sterlini, pesos, franchi svizzeri, m’accattu”. La loro era un’attività illecita, ma da sempre esistita in quella piazza, dove si svolgeva da sempre la borsa valori, e da cui la piazza stessa ha preso il nome. A cambiare la moneta estera da loro, però,  era conveniente perché te la pagavano qualcosa in più del cambio ufficiale che praticavano le banche. E poi tanta brava gente,  nei pacchi che riceveva dai  parenti  dell’America, da noi considerati ricchi, ma che certamente, data la loro economia, ben diversa dalla nostra, lo erano, trovava anche qualche biglietto da dieci dollari. E poiché delle  banche non ne conosceva nemmeno l’esistenza, andava a Piazza Borsa  a colpo sicuro.

    E poi, quando dovevi comprare monete estere, spesso le banche ne erano sprovviste, mentre  da loro le trovavi certamente.

    Sempre  a Piazza Borsa, un tizio con un furgoncino, vendeva di tutto, con una specie di asta al ribasso, che però non aveva nulla a che vedere con quelle praticate nei mercati agricoli danesi, che sono una cosa seria.

    Arringava la folla, tirando fuori dal furgoncino le cose più disparate, completamente inutili, ma che offriva con la capacità di farti credere il contrario.

    “Ecco a voi un bellissimo San Cioseppo,” e tirava fuori un’ orribile statuetta, che non era di plastica perché allora non esisteva, ma di un materiale ed una fattura di gran lunga più scadente.“E ci aggiungo anche un  bellissimo pettine di tartaruga, e pure un altro. E pure una meravigliosa sciarpa di seta pura…….. E tutta questa roba non ve la do per cento, e nemmeno per novanta, ne per ottanta…….ma per la misera somma di cinquanta lire. Affrettatevi perché ce ne sono solo pochi pezzi. Uno a lei, uno a lei. Grazie signori”. Certo che li vendeva, oltre che ai compari, anche ai polli che scendevano dalla provincia per fare acquisti.

    E sempre nella stessa piazza, si aggirava un tipo che faceva l’indovino. Aveva un copricapo da giullare, un pappagallo sulla spalla destra ed una specie di bastone, che poi proseguiva in un tubo di vetro dentro cui vi era acqua, con un diavoletto che saliva e scendeva, e da cui l’indovino diceva di trarre   auspici di maggiore o minore fortuna. Si trattava ovviamente del “Diavoletto di Cartesio”. L’indovino, pressando una pompetta ben nascosta, aumentava la pressione del liquido, che, obbediente al principio di Archimede, faceva salire o scendere il diavoletto.

    Alla cima di questo bastone era collocata una cassetta, piena di bigliettini, ben piegati  ed allineati. E lui diceva al pappagallo: “Cocorito, andivina a fortuna al signore.” E Cocorito, bisogna dire ammaestrato a dovere, prendeva con il suo becco un bigliettino, che l’indovino porgeva al suo Cliente.

    E quando lo sfottevamo, che il tempo dovevamo pure farlo passare, e gli studenti sono stati sempre quelli che sono, si difendeva attaccando; “ Veni cca, ca t’andivinu a fortuna: Tu muori sutta un trienu. Si muori sutta un trammi, ‘un vali. Po’ fari recramu.”

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