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14 dicembre 2017

A SCUOLA DI ROCK 35 - THE WHO

di Dario Cordovana



In quella stagione di grossi fermenti che era l’inizio degli anni sessanta in Inghilterra, quando i giovani mandavano alle stelle Beatles e Rolling Stones, molti altri gruppi provavano ad aver fortuna. Roger Daltrey (voce), Pete Townshend (chitarra e autore della maggior parte dei pezzi) e John Entwistle (basso e autore dei restanti pezzi), provenivano da Acton, sobborgo della zona ovest di Londra.
Dopo un breve apprendistato a nome Detours cambiano il loro nome in “The Who” e nel 1964 assoldano un giovane batterista di Wembley, Keith Moon, personalità bislacca, ma musicista trascinante con uno stile imprevedibile. Il primo singolo, “Zoot Suit”, a nome High Numbers, è un flop. Tornati al nome originario diventano i paladini della scena mod inglese con i singoli “I Can’t Explain”, “Anyway, Anyhow, Anywhere” e soprattutto “My Generation”, con la celebre frase “voglio morire prima di diventare vecchio”. Ad attirare i giovani al “Marquee” di Londra, dove il gruppo spesso si esibiva, anche la presenza scenica del gruppo, con Roger che muoveva il filo del microfono come una frusta, Pete che roteava il braccio con cui faceva partire furiosi accordi alla chitarra, Keith che era una furia alla batteria e John assolutamente imperturbabile al basso, la quiete in mezzo alla tempesta. Nel corso di una di queste esibizioni poi Pete accidentalmente finì per danneggiare la sua chitarra e, arrabbiatosi perché il pubblico ne rideva, finì per spaccarla del tutto. Questa trovata fortuita ottenne così tanto successo che il nostro fu costretto a ripeterla in ogni concerto!
In ogni caso, con “My Generation” al numero due in classifica singoli e l’album omonimo che ben rappresenta lo stile del gruppo, un compromesso tra le prime composizioni di Townshend e classici del rhythm’n’blues apprezzati da Daltrey, gli Who sembrano sulla rampa di lancio, malgrado le tensioni interne si facciano sentire (la loro non è mai stata una convivenza semplice).
Dopo i nuovi ottimi singoli “Substitute”, “I’m a Boy” e “Happy Jack” arriva nel 1966 il secondo album intitolato “A Quick One”. A risaltare, oltre alla “Boris the Spider” di Entwistle è la lunga “A Quick One, While He’s Away”. L’album vola al numero 4 in classifica e nella top 5 entra anche il successivo singolo “Pictures of Lily”.
L’esibizione al Festival di Monterey nel 1967 insieme a star del calibro di Otis Redding, Janis Joplin e Jimi Hendrix permette agli Who di acquisire notorietà in America ed entrare anche nelle classifiche di vendita. La gestione del gruppo però non è semplice per gli organizzatori, data anche l’abitudine di Keith Moon di distruggere camere d’albergo. L’album successivo, “The Who Sell Out” è caratterizzato dalla presenza di finti spot pubblicitari che collegano i vari pezzi, tra i quali si segnala “I Can See For Miles”, un’energica canzone che spingerà Paul McCartney a comporre “Helter Skelter”.
Nel 1968 Pete Townshend inizia a lavorare ad un’opera rock su un ragazzo, sordo, muto e cieco, che verrà pubblicata nel maggio del 1969. “Tommy” sarà un grosso successo di critica e di pubblico e gli Who ne eseguiranno alcune parti al celebre festival di Woodstock. Poi, anni dopo, come pure la successiva “Quadrophenia”, diventerà anche un film.
Il 1970 si caratterizza invece, oltre alla partecipazione al Festival dell’isola di Wight, per la pubblicazione dell’album dal vivo “Live at Leeds”, considerato uno dei più bei live della storia. Verrà pubblicato in versione album singolo, per avere l’intero concerto bisognerà attendere la deluxe edition in versione doppio CD molti anni più tardi.
L’anno dopo, da un progetto abortito chiamato “Lifehouse”, viene pubblicato invece l’album “Who’s Next”, vero scrigno delle meraviglie, da “Baba O’ Riley”, a “Bargain”, a “Behind Blue Eyes”, a “Won’t Get Fooled Again” (pubblicata anche in versione singolo, molto più breve dell’originale). A seguire altri due singoli eccellenti, “Join Together” (brano nel quale lo strumento portante è lo scacciapensieri!) e “Relay”, prima del nuovo doppio del 1973 intitolato “Quadrophenia”, seconda opera rock del gruppo, incentrata sulla vita mod. E’ un album molto riuscito e piace sia alla critica che al pubblico, ma è anche l’ultimo punto alto della discografia.
Gli Who tornano nel 1975 con l’interlocutorio “The Who by Numbers”. Subito dopo i progetti solisti avranno la meglio per un po’ sulle attività del gruppo (da segnalare la collaborazione tra Pete Townshend e Ronnie Lane). Nel frattempo la vita sregolata di Keith Moon comincia a presentare il conto e le registrazioni del nuovo album “Who Are You” del 1978 (con alcuni buoni spunti spesso soffocati da sintetizzatori un po’ troppo invadenti), vengono portate a termine con molta difficoltà. Moon morirà nel settembre di quell’anno.
Gli Who decidono comunque di andare avanti reclutando alla batteria l’ex-Small Faces Kenney Jones, ma il suo stile non si adatterà molto bene a quello del gruppo e Daltrey se ne lamenterà sempre. Gli album registrati con lui (“Face Dances” e “It’s Hard) vedono calare le quotazioni del gruppo, anche per una vena compositiva non sempre ispirata. E il gruppo si scioglie.
Nel tempo gli Who torneranno insieme per diversi tour, anche dopo l’improvvisa scomparsa di John Entwistle nel 2002, e qualche rara incursione in studio per registrare qualche pezzo, per qualche album tributo o a corredo di qualche antologia. L’unico vero album è “Endless Wire”, del 2006, con Pino Palladino al basso e Peter Huntington alla batteria, temporaneo sostituto di Zak Starkey (figlio di Ringo Starr), che all’epoca si divideva tra gli Who e gli Oasis (bella vita, eh?).
Nel 2014 il tour dei 50 anni sembra mettere fine alla storia. Invece gli Who, dopo aver portato in tour l’intero “Quadrophenia”, si imbarcano nel tour dei 51 anni. E la storia continua…

3 album consigliati: Who’s Next, Tommy, Quadrophenia.

1 album prescindibile: It’s Hard.


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